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  • Immagine del redattorePaolo Croce

I più grandi fotografi di sempre

Aggiornamento: 17 feb 2019

Chi sono, chi sono stati...


Ansel Adams è stato uno dei maestri della fotografia del XX secolo,  uno dei padri fondatori della fotografia paessagistica, un innovatore le cui idee ed il cui stile sono ancora attuali. 

L'anima di questo fotografo è il riflesso della sua infanzia. Nato nel 1902 a San Francisco, si ritrova a subire la violenza distruttrice della natura a causa del terribile terremoto che colpisce la città nel 1906. Durante questo avvenimento, il piccolo Ansel cade e si frattura il naso procurandosi una lieve deformità che lo contraddistinguerà per tutta la vita. Troppo piccolo per ricordare ma troppo grande per non risentire delle conseguenze di questo fenomeno, Ansel Adams finirà col cedere costantemente al fascino dell'ambiente che lo circonda. A 14 anni visita il Yosemite National Park, ricevendo una Kodak Brownie per poter fotografare i paesaggi. Fu questo il suo inizio concreto, la scintilla che fece scoccare tutto, l'alpha della sua carriera fotografica. La passione per i paesaggi, gli ambienti e la natura saranno  un'eterna costante, insieme alla prerogativa di una fotografia in bianco e nero. 

Uno dei momenti più importanti della carriera di Ansel Adams è nel 1932 quando fonda il gruppo f/64. Il nome indica la minima apertura del diaframma, una tecnica complessa ma che permette di allargare la profondità di campo, ridurre lo sfumato dello sfondo e massimizzare i dettagli della foto. È questa una delle regole della fotografia paesaggistica ma lo scopo del gruppo era, bensì, un'altra: cercare di riunire tutti gli esponenti della straight photography come John Paul Edwards, Preston Holder, Alma Lavenson e Consuelo Kanaga. Nella straight photography è molto importante lasciare intatti la fotografia, senza sottoporla a superflue manipolazioni digitali in gradi di intaccarne la purezza. I fotografi del movimento si contrappongono fortemente a quelli appartenente alla corrente del pittorismo, quest'ultima vita come una banale simulazione della pittura. 


L'ultima lezione di Adams è nella consapevolezza della fotografia: l'analogico poneva un limite ben preciso rispetto al digitale e, infatti, i fotografi di ultima generazione tendono a scattare moltissimo. L'eccesso non è mai buona cosa e Ansel Adams vedeva la fotografia digitale come un suicidio per la propria creatività. Il suo insegnamento invita quindi al pensiero, all'osservazione prolungata di ogni minima parte della propria scena, nella conseguente visualizzazione dello scatto e, solo in ultimo, nello scatto vero e proprio. Per quanto possa sembrare difficile si può tentare di ottenere lo stesso risultato semplicemente limitandosi nello shooting e concedendosi una decina di scatti. Ciò affinerà la propria consapevolezza e migliorerà ampiamente la propria tecnica fotografica.

 

GABRIELE BASILICO


Gabriele Basilico e’ probabilmente  il fotografo di paesaggi urbani piu’ conosciuto al mondo. Nato a Milano nel 1944, si laurea in architettura nel capoluogo lombardo nel ‘73, ma abbandona subito la carriera per cui aveva studiato per dedicarsi alla fotografia.

All’inizio della sua carriera si dedica all’ indagine sociale. A cavallo fra gli anni ‘70 ed ‘80 l’influenza dei suoi studi in architettura si fa progressivamente spazio nella sua fotografia. Nel 1982 presenta il suo primo successo internazionale, Milano. Ritratti di fabbriche. Nel 1984 viene “arruolato” dal governo francese per la Mission Photographique de la DATAR, un progetto di documentazione della trasformazione del paesaggio. Basilico e’ l’unico italiano del gruppo di fotografi selezionati, e gli viene assegnata la tematica “Bord de Mer”.

Nel 1991 prende parte ad un’ importante progetto sulla citta’ di Beirut, che stava uscendo, devastata, da 15 anni di guerra civile.  Fra le rovine si muovono sei fotografi, incaricati di imprimere nella memoria la devastazione creata dal conflitto libanese : Oltre a Basilico ci sono Rene’ Burri, Robert Frank, Joseph Koudelka, Raymond Depardon e Fouad Elkoury.



L’architettura delle aree urbane e le trasformazioni del paesaggio contemporaneo sono l’oggetto  della ricerca fotografica di Gabriele Basilico, che puo’ essere considerato il primo grande fotografo di spazi architettonici, una figura che fino a quel momento non era mai esisitita. “ Mi ero dato una specie di missione” racconta Basilico, “testimoniare come lo spazio urbano si modifica. Oggi lo fanno in tanti, negli ultimi dieci anni e’ stato considerato il lavoro piu’ artistico che ci sia, e non c’e’ citta’ al mondo che non venga fotografata”.

Ma quando inizia a fotografare, ancora studente universitario , Basilico si dedica al reportage umanistico ed all’indagine sociale, seguendo l’ “‘onda” dei movimenti degli anni ‘60 e l’esempio del suo maestro ed amico Gianni Berengo Gardin. “Erano anni in cui la coscienza politica ti imponeva di uscire e fotografare il “sociale”: manifestazioni, cortei, operai…”


Basilico crea un proprio stile, immediato e riconoscibilissimo per raccontare le citta’: uno stile documentale e analitico con  cui sembra vivisezionare lo spazio urbano creato dall’uomo. Le sue foto non colgono l’attimo, non rubano immagini di vita cittadina come quelle di Berengo Gardin o William Klein,  ma riproducono la complessita’ urbana attraverso  uno sguardo aperto e contemplativo che rimanda a  Walker Evans.

Nei suoi scatti e’ quasi del tutto assente la figura umana : “ La fotografia d’architettura, nella grande tradizione, e’ sempre senza persone, non ci sono presenze umane perche’ distraggono dalla forma degli edifici e dello spazio”, racconta Basilico. “Tendo ad aspettare che non ci sia nessuno, perche’ la presenza di una sola persona enfatizza il vuoto e fa diventare un luogo ancora piu’ vuoto. Mentre se lo fai vuoto e basta, allora diventa spazio metafisico, alla Sironi o alla Hopper”.





 

GIANNI BERENGO GARDIN

Gianni Berengo Gardin e' un fotografo italiano nato a Santa Margherita Ligure nel 1930.  Cresce e studia a Venezia, la sua vera citta' natale ( come racconta lui stesso, e' nato in Liguria solo perche i suoi genitori si trovavano in vacanza li'). 

Inizia a dedicarsi alla fotografia all'inizio degli anni '50. Da quel momento non smettera' mai di fotografare, accumulando cosi' un archivio fotografico monumentale capace ti raccontare l'evoluzione del paesaggio e della societa' italiana dal dopoguerra ad oggi. Fin dall'inizio focalizza la sua attenzione su una varieta' di tematiche che vanno dal sociale, alla vita quotidiana, al mondo del lavoro foino all'architettura ed al paesaggio. Berengo Gardin e' quindi un fotografo eclettico, apprezzato a livello internazionale, e che e' stato spesso accostato a Henri Cartier-Bresson per il lirismo della sua fotografia. Ma e' lui stesso a negare questo accostamento, pur ribadendo il rispetto per Bresson : "Mi dicono spesso che sono il Cartier-Bresson italiano, in realtà sono il Willy Ronis italiano, anche se una delle cose di cui più mi vanto è la dedica in cui Henri Cartier-Bresson mi scrive: “A Gianni Berengo Gardin con simpatia e ammirazione”. Avere l’ammirazione di Cartier-Bresson è il massimo, poi si può morire in pace."



La formazione fotografica di Berengo Gardin ebbe una svolta proprio grazie alla Magnum ( anche se indirettamente), di cui Cartier Bresson e' stato fondatore : all' inzio deglia anni '60 un suo parente americano lo mise in contatto con Cornell Capa, che gli fece avere alcuni libri di fotografia: da quel momento stabilisce che la sua fotografia dovra' seguire le orme dei grandi fotografi di Life e Magnum, raccontando la societa' con gli occhi di un artigiano votato all'impegno sociale. Di li' a poco, mentre mostra le sue foto ad suo amico in un bar, incontra un editore che lo fa entrare nel mondo del fotogiornalismo. Da li' ebbe inizio una carriera da fotografo professionista che lo ha portato a realizzare oltre 200 mostre in tutto il mondo ed altrettante pubblicazioni.

Le sue fotografia affrontano varie tematiche, ma l'indagine sociale e' cio' che piu' caratterizza il lavoro di Berengo Gardin: "Il mio lavoro non è assolutamente artistico” racconta Berengo Gardin “e non ci tengo a passare per un artista. L’impegno stesso del fotografo non dovrebbe essere artistico, ma sociale e civile”, spiega il fotografo veneziano.



Alcuni suoi lavori hanno toccato tematiche veramente delicate della societa' italiana. Negli anni '70 realizza Morire di Classe, un reportage sui manicomi italiani che dette risalto alla battaglia combattuta a quel tempo da Franco Basaglia.  Quella documentazione, condotta da Berengo Gardin insieme a Carla Cerati  fu per l’Italia un vero choc. La fotografia entrava di prepotenza all’interno di strutture proverbialmente chiuse e faceva luce – nel vero senso del termine – su condizioni e situazioni che fino a quel momento non dovevano essere mostrate.  “Si era nel Sessantotto. Franco Basaglia si batteva per la chiusura dei manicomi e insieme a Carla Cerati, fotografa milanese, avevamo realizzato delle fotografie per L’Espresso sui manicomi. Vedendole, Basaglia rimase allibito. Si trattava di fotografie mai viste prima in Italia. Così, abbiamo deciso di farne un libro, Morire di classe, che, con l’aggiunta di testi di Basaglia, ha fatto conoscere all’Italia le condizioni tragiche di questi malati.” In questo modo Gianni Berengo Gardin, in un testo recente, ricorda la genesi di uno dei lavori più forti, decisi e importanti della storia del fotogiornalismo italiano.



 

BILL BRANDT




Bill Brandt e’ un fotografo inglese fra i piú influenti del XX secolo. Figlio di padre inglese e madre tedesca, nacque ad Amburgo nel 1904. Testimone dell’ascesa del nazismo, in seguito ripudió le sue origini tedesche, e scelse l’Inghilterra come patria adottiva, arrivando ad affermare di essere nato a Londra.

Probabilmente si appassionó alla fotografia intorno all’inizio degli anni ‘20, durante un periodo trascorso a Davos, Svizzera, per curarsi dalla tubercolosi. Nel 1927 si spostó a Vienna per farsi curare dal Dottor  Eugenie Schwarzwald, che gli trovo’ anche un lavoro come assistente in uno studio fotografico. Il medico  lo lo introdusse nell’elité culturale della cittá, e Brandt entró in contatto con Ezra Pound e soprattuto col fotografo Man Ray, del quale divenne assistente per alcuni mesi nel 1930. Grazie a questa esperienza  fu testimone della nascita del surrealismo e intravide le potenzialitá artistiche della fotografia. Le sue prime fotografie sono ispirate al lavoro del fotografo francese Eugene Atget, che si guadagnava da vivere fotografando pittori, designer e librerie di Parigi.


La maggioranza delle prime fotografie inglesi di Brandt furono pubblicare nel libro The English at Home, del 1936. Brandt utilizzó i suoi contatti personali e familiari per avere accesso a soggetti di vario tipo, ritratti nella loro vita quotidiana. Le fotografie di Brandt miravano ad evidenziare le disparitá presenti nella societá inglese :  “ I contrasti sociali, durante quegli anni prima della guerra, furono a livello estetico, una vera e propria fonte di ispirazione per il mio lavoro. Iniziai a scattare foto nel West End di Londra, nelle periferie, nelle baraccopoli.”

Il secondo libro di Brandt, A night in London, fu pubblicato nel 1938, ispirato ad un libro di Brassai, Paris de Nuit. Il libro documenta una tipica notte londinese, muovendosi fra diversi luoghi e diverse classi sociali. “ Fotografavo pub, alloggi pubblici per senzatetto, bagni turchi, prigioni, gente che dormiva nel proprio letto”. A quel tempo la fotografia notturna era un genere assolutamente nuovo, di cui Brandt si rivelo’ un vero e proprio pioniere.  Brandt, almeno in alcuni casi, apportava modifiche sostanziali alle fotografie nella foto qua sotto utilizza la tecnica “day for night”, al tempo molto sfruttata nel monso del cinema per trasformare per trasformare le riprese diurne in scene notturne.



Bill Brandt e’ molto famoso anche per i suoi nudi. Brandt inizia a sperimentare con il nudo a metá degli anni ‘40, ma fa un vero e proprio salto di qualitá nel 1944 quando compra una macchina fotografica in mogano equipaggiata con un grandangolo. Questa macchina fotografica, una Kodak di seconda mano utilizzata precedentemente dalla polizia per fotografare rilievi investigativi, gli permetteva, come lui stesso amava dire, di vedere il modo attraverso “gli occhi di un topo, di un pesce o di una mosca”.

L’influenza del grandangolo nei suoi nudi risulta evidente. “ Non fotografavo quello che vedevo io, ma quello che vedeva la camera. Il mio sguardo, la mia visione, intervenivano il meno possibile, e lasciavo che la lente realizzasse immagini e forme che i miei occhi non avevano mai osservato”. Il risultato sono ritratti di donne misteriose, dalle forme allungate, spesso rinchiuse in stanze opprimenti che simbolizzano incubi e paure.



 

HENRY CARTIER BRESSON

Henry Cartier Bresson nasce a Chanteloup nel 1908, da una ricca ed influente famiglia francese. Trascorre gran parte della sua giovinezza immerso nell’atmosfera bohemien di Parigi. Da giovane provo’ ad intraprendere la carriera di pittore, fu  allievo del pittore Andre’ Lothe .

Negli anni ‘20  fu molto vicino al movimento surrealista da cui mutuo’ l’interpretazione dei dettagli disseminati nella vita quotidiana. In una delle sue piu’ celebri frasi afferma : “La fotografia può fissare l’eternità in un istante”.  

Fu proprio la frustrazione per gli scarsi risultati come pittore a fargli scoprire la fotografia durante un periodo di convalescenza a Parigi, ed a fargli scegliere una Leica 35 mm come strumento espressivo. Le foto surrealiste scattate durante i suoi viaggi in Messico ed in Europa fra il 1932 ed il 1935 lo resero famoso come art-photographer a New York.

Al suo ritorno in Francia, nel 1937, inizio’ a dedicarsi al fotogiornalismo dopo un periodo di apprendistato come regista presso Jean Renoir.

Durante la seconda guerra mondiale entra a far parte della resisitenza francese. Catturato dai nazisti,  riusci’ a scappare ed arrivare in tempo per documentare la liberazione di Parigi nel 1944.

Nel 1947 e’ tra i fondatori della storica agenzia Magnum, nel ‘53 pubblica  “Il momento decisivo”, considerato una vera e propria “Bibbia” per tutti i fotografi di reportage. Fu attivo come fotogiornalista fino alla fine deglia anni ‘70.



Henry Cartier- Bresson  e’ probabilmente il fotografo piu’ influente del ‘900, tanto da essersi guadagnato il soprannome di  “occhio del secolo”. Anche se questa affermazione puo’ essere difficile da dimostrare, in pochi negheranno che le sue fotografie in bianco e nero, la sua estetica del “momento decisivo”,  siano stai il modello predominante di tutto il secolo scorso, e probabilmente anche di questo.

Anche se al giorno d’oggi Cartier Bresson e’ principalmente riconosciuto come fotogiornalista e ritrattista, lui ha sempre sempre considerato la fotografia come una forma d’arte, un’estensione della pittura. Usava la sua Leica come un “ album da disegno meccanico”, e si dimostro’ subito in grado di ritagliare immagini dalla vita quotidiana con una precisone ed un tempismo ineguagliabili , ma soprattutto andando immediatamente al cuore del problema.



Dopo i primi anni, segnati dall’ influenza del Surrealismo, negli anni ’30 maturo’ una coscienza politica e sociale, che lo porto’ ad impegnarsi nel fotogiornalismo, un settore che successivamente nobilito’ fondando l’agenzia fotografica Magnum e pubblicando  “Il momento decisivo”. Molti sostengono che elevo’ il fotogiornalismo, fino a quel momento poco considerato, al livello di vera e propria arte.

Il suo approccio prevedeva di allineare “ testa, occhio e cuore”, e di scattare piu’ fotografie possibili,  finche’ dalla massa non ne emerge una in cui tutti gli elementi sono disposti perfettamente e sono capaci di simbolizzare un evento, una persona o un luogo. Questa filosofia, che ricorda quella de “ Lo Zen e il tiro con l’arco”, ha ispirato migliaia di fotografi, professionisti ed amatoriali.










 

ROBERT CAPA



Robert Capa nasce a Budapest nel 1913. Il suo vero nome era Endre Ernő Friedmann, che fu costretto a cambiare durante un periodo di clandestinita’ in Francia. E‘ considerato il primo e piu’ famoso fotografo di guerra, e documento’ cinque diversi conflitti : la guerra civile spagnola (1936-1939), la seconda guerra sino-giapponese (che seguì nel 1938), la seconda guerra mondiale (1941-1945), la guerra arabo-israeliana (1948) e la prima guerra d'Indocina (1954). 

Studio’ Scienze all’Universita’ di Berlino fra il 1931 ed il 1933, quando dovette lasciare la Germania nazista a causa delle sue origini ebraiche. Autodidatta, inizio’ come assistente di laboratorio e inizio’ a fare il fotografo freelance quando si trasferi’ a Parigi.

La sua fama esplosa durante la guerra civile spagnola, grazie alla famosa foto  “ Il miliziano colpito a morte”, di cui ancora oggi si discute l’autenticita’. 

Robert Capa si interesso’ anche di cinema.  Nel 1936 giro’  alcune sequenze per il film di montaggio "Spagna 36" diretto da Jean Paul Le Chanois e prodotto da Luis Bunuel. · La relazione con l'attrice Ingrid Bergman permise  a Capa di scattare alcune foto sul set del film "Notorious" (1946) di Alfred Hitchcock. ·

Nel 1947 assieme a Henri Cartier-Bresson, David Seymour, Georges Rodger e William Vandivert fonda l' agenzia fotografica "Magnum Photos". 

Come la storica compagna Gerda Taro, mori’  facendo il suo lavoro, saltando su una mina in Vietnam nel 1954.



Robert Capa e’ stato il prototipo del fotografo di guerra : la sua fu una vita spericolata, fatta di donne, grandi bevute, ed attrazione fatale per il pericolo. Era consapevole del fascino del proprio personaggio, che attraeva allo stesso tempo belle donne ed approfittatori.  

Le sue foto erano pero’ meno improntate al “glamour” : raccontavano di sofferenza, miseria e caos. La sua carriera coincise con uno dei periodi piu’ bellicosi della storia, e Capa non perse mai l’occasione di essere al fronte, pronto ad affrontare la morte per raccontare la guerra.

Il suo sguardo e’ completamente immerso nella realta’ che vuole rappresentare, cerca di limitare al minimo i filtri e le barriere tra fotografo e soggetto. Si fa contaminare dalla vita e dall’uomo. "Se le tue foto non sono buone, vuol dire che non eri abbastanza vicino", recita la sua frase più famosa.  L’importante e’ stare dentro le cose. 



Paradossalmente, la sua foto piu’ famosa e’ anche la piu’ controversa.  “Il miliziano colpito a morte” rappresenta una vera icona del secolo scorso, ma tutt’ ora si dibatte sulla sua autenticita’. Secondo alcuni, la foto sarebbe infatti preparata ad arte da Robert Capa, e le circostanze dello scatto riportate dal fotografo non sarebbero veritiere. 

Robert Capa, in un’ intervista radiofonica datata 1947, racconta come riusci’ a realizzare lo scatto: "Ho scattato la foto in Andalusia - racconta - mentre ero in trincea con 20 soldati repubblicani, avevano in mano dei vecchi fucili e morivano ogni minuto. Ho messo la macchina fotografica sopra la mia testa, e senza guardare ho fotografato un soldato mentre si spostava sopra la trincea, questo è tutto. Non ho sviluppato subito le foto le ho spedite assieme a tante altre. Sono stato in Spagna per tre mesi e al mio ritorno ero un fotografo famoso, perché la macchina fotografica che avevo sopra la mia testa aveva catturato un uomo nel momento in cui gli sparavano. Si diceva che fosse la miglior foto che avessi mai scattato, ed io non l'avevo nemmeno inquadrata nel mirino perché avevo la macchina fotografica sopra la testa".

Documento’ la anche la seconda guerra mondiale, lasciando immagini memorabili delle attivita’ militari degli americani in Sicilia e dello sbarco in Normandia. 



Si distinse anche come fotografo in tempo di pace, ritraendo attori ed artisti e documentando la vita decadente ed opulenta dei ricchi europei.

(qui con Pablo Picasso).

Rimmarra’ nella storia come il prototipo del fotografo di guerra  e come fondatore dell’ agenzia fotografica Magnum che con i suoi canoni etici ed estetici defrinisce ancora oggi il modo in cui il fotogiornalismo racconta il mondo.















 

ROBERT DOISENAU



Robert Doisneau e’ un fotografo francese noto per il suo approccio poetico alla street photography.

Nasce a Gentilly, un sobborgo di Parigi, nel 1912. Da giovane studia litografia presso l’ Ecole Etienne, ma amava sostenere che le lezioni piu’ importanti le abbia apprese nelle strade dei sobborghi operai in cui e’ cresciuto. Nel 1929 inizia ad occuparsi di fotografia lavorando per il fotografo pubblicitario Andre’ Vigneau per poi passare, agli inizi degli anni ‘30, a lavorare come fotografo industriale per la Renault. Gia’ in questo periodo inizia a fotografare nelle periferie parigine con l’obbiettivo di vendere i propri scatti alle riviste di fotografia che proprio in quegli anni iniziavano ad espandersi.

Con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, Doisneau interrompe momentaneamente le attivita’ di fotografo ed entra a far parte della Resistenza, mettendo a a disposizone le proprie capacita’ di litografo per falsificare documenti. Finita la guerra, ricomincia  a scattare a scopo pubblicitario, e realizza anche alcuni reportage per Vogue.  Nel 1949 pubblica il suo primo libro di fotografie “ La Banlieu de Paris”, il primo di una lunga serie di volumi con immagini di Parigi e dei parigini.

Negli anni ‘50 divenne membro di “Group XV”, un’ associazione di fotografi dediti alla ricerca tecnica ed artistica in campo fotografico. Da quel momento in avanti, prosegui’ la sua carriera di fotografo senza interruzione , regalandoci un vasto repertorio di immagini in cui giustappone elementi tradizionali ed anticonformisti, immagini caratterizzate da uno spiccato senso dell’ umorismo, da sentimenti anti-establishment e soprattutto da un profondo e sentito umanismo.



Robert Doisneau e’ riuscito, piu’ di chiunque altro, a raccontare per immagini la “francesita’’”. Le sue fotografie hanno colto lo spirito di un’intera nazione e sono diventate sinonimo dello stile di vita francese. Nessuno come lui ha saputo raccontare il fascino della Ville Lumiere: Doisneau ha saputo cristallizzare in immagini tutti i miti e le icone della Parigi del ‘ 900. Attraversando la citta’ dalla Senna alla periferie operaie, Doisneau ci racconta la Parigi degli innamorati, quella dei bistrot, quella degli atelier di moda e quella dei bambini di strada, regalando ai suoi ammiratori un monumentale affresco di Parigi e dei parigini.





La sua capacita’ di cogliere le emozioni gli deriva da un’immersione totale nella realta’ che lo circonda, tanto che lui amava definirsi poeticamente un “pescatore di immagini”. Il suo processo e’ impulsivo, ecco come lo racconta lui stesso:  "Vi spiego come mi prende la voglia di fare una fotografia. Spesso è la continuazione di un sogno. Mi sveglio un mattino con una straordinaria voglia di vedere, di vivere. Allora devo andare. Ma non troppo lontano, perché se si lascia passare del tempo l'entusiasmo, il bisogno, la voglia di fare svaniscono. Non credo che si possa "vedere" intensamente più di due ore al giorno".

La sua foto piu’ famosa,  “ Le Baiser de l’hotel de ville”, fu scattata nel 1950 mentre Doisneau stava realizzando un servizio fotografico per la rivista americana “Life”. All’ inizio degli anni ‘90 fu oggetto di un contenzionso che fu seguito con attenzione e curiosita’ dai media. Un coppia francese, Denise e Jean Louis Lavergne, si presentarono ad una televisone franacese sostenendo di essere i due protagonisti del celebre bacio immortalato da Doisneau e denunciando di essere stati defraudati dall’ artista in quanto non avrebbe chiesto il loro. Doisneau per difendersi dall’accusa fu costretto a dichiarare che i due soggetti della foto si erano messi in posa, per cui avevano rilasciato il loro permesso. A quel punto si presento’ dal fotografo Francoise Bonnet che, mostrando la copia autografata dal fotografo, dimostro’ di essere lei la vera protagonista dello scatto.  La stessa Bonnet nel 2005 riusci’ a vendere la copia autografata per 155.000 Euro.



 

ELLIOT ERWITT


Nato a Parigi nel 1928 da genitori ebrei di origini  russe, Elliot Erwitt passo’ la sua infanzia a Milano, fino a quando, nel 1939, si trasferi’ negli Stati Uniti con la famiglia per fuggire dalle leggi fasciste. Trascorse la sua adolescenza ad Hollywood, dove inizio’ presto a lavorare nella camera oscura di uno studio fotografico prima di iscriversi ad un corso di fotografia presso il Los Angeles City College.

Nel 1948 si trasferisce a New York dove studia cinema alla New Schoole fo Social Research.

Nel 1949 viaggio’ in Italia e in Francia dove fotografo’ con la sua fedele Rolleiflex. Nel 1951 presto’ servizio militare per l’esercito statunitense in Germania e Francia, dove ebbe ancora modo di scattare fotografie.

La svolta per la sua carriera di fotografo avvenne a New York, quando conobbe Robert Capa, Edward Steichen e Roy Stryker. Quest’ultimo lo assunse alla Standard Oil Company per la quale lavoro’ ad un libro fotografico e ad un reportage sulla citta’ di Pittsburgh.



Nel 1953 entro’ a far parte dell’ agenzia Magnum e contemporaneamente collaboro’ come free lance  con riviste del calibro di “Life”.  Alla fine degli anni ‘60 fu presidente della Magnum per tre anni.

A partire dagli anni ‘70  si concentro’ maggiormente sul cinema, realizzando sia documentari che commedie.







Elliot Erwitt e’ un fotografo universalmente riconosciuto per la delicata ironia del suo sguardo, che ha sempre preferito rivolgere alle assurdita’ presenti nella nostra societa’ piuttosto che alle sue malattie.  Pur prendendo estremamente sul serio la fotografia, ha sempre sostenuto l’estrema importanza dell’umorismo nelle sue fotografie : “ Far ridere le persone e’ uno dei piu’ grandi che si possano raggiungere. E’ molto difficile, per questo mi piace”

L’ ironia di Erwitt scaturisce dalla sua capacita’ di cogliere nella quotidianita’  degli accostamenti paradossali, che allo stesso tempo mettono in mostra e smitizzano le borie e le ansie della societa’ contemporanea. Ma sempre bonariamente e con una buona dose di accondiscendenza. I cani sono uno dei suoi soggetti preferiti. Non perche’ ne sia particolarmente affascinato ( almeno cosi’ lui sostiene), ma perche’ con i loro atteggiamento naturale e irriverente, fungono da perfetto contraltare alla pomposita’ ed alla ricercata compostezza dei loro padroni.



La sua attenzione nei confronti degli aspetti apparentemente piu’ frivoli della societa’, lo resero un protagonista sui generis della Magnum. Ma anche quando si cimenta nel fotogiornalismo  “classico”, Erwitt regala ai sui ammiratori immagini in grado di fissare nella memoria di generazioni passaggi storici di portata mondiale. dalla foto di Jaqueline Kennedy durante il funerale del marito, a quella di Nixon che punta il dito sul petto di Nikita Kruscev, ai ritratti di Che Guevara ed a quelli di Marylin Monroe.

Nel corso della sua opera e’ possibile anche rintracciare un filone dedicato, volontariamente o meno, alla tematica razziale affrontata anche in questo caso col sorriso ( magari un po’ amaro) sulle labbra.



 

FRANCO FONTANA



Franco Fontana e’ uno dei fotografi italiani contemporanei piu’ celebri a livello internazionale. Nato a Modena nel 1933, comincia a fotografare a livello amatoriale nel 1961. Fin dall’ inizio si dedica ad una  ricerca estetica focalizzata sull’ espressione astratta del colore. Tiene le sue prime esposizioni pesonali nel 1965 a Torino e nel 1968 a Modena. Da quel momento la sua carriera sara’ un susseguirsi di successi, coronata da mostre nei piu’ importanti musei a livello mondiale, numerosi premi i e collaborazioni con istituzioni culturali ed aziende di rinomanza mondiale.



Franco Fontana e’ un fotografo eclettico, che si e’ cimentato  con successo in vari generi fotografici. Ma  la sua  ricerca si e’ focalizzata soprattutto sull’ utilizzo del colore e delle geometrie. La scelta dei soggetti, che siano paesaggi rurali, industriali o urbani, risulta sempre secondaria rispetto ai due protagonisti delle fotografie di Fontana : il colore e la geometria. Attraverso queste due “leve”, che Fontana maneggia da maestro, le fotografie dei suoi paesaggi non si limitano a rappresentare la realta’, ma ne creano un’astrazione fatta di colori forti, quasi esagerati, e linee nette e marcate. In un’ epoca in cui si ricercava l’astrazione quasi esclusivamente attraverso il bianco e nero, Fontana invento’ un linguaggio nuovo, elegante ed unico, subito apprezzato a livello mondiale.



Cosi’ racconta la sua predilezione per il colore in’intervista al National Geographic : ”Fotografo il colore perché fortunatamente vedo a colori: ritengo il colore più difficile del bianco e nero, che è già un'invenzione perché la realtà non è mai accettata per quello che è a livello creativo e conseguentemente va reinventata. Il mio colore non è un'aggiunta cromatica al bianco e nero ma diventa un modo diverso di vedere, essendomi liberato da quelle esigenze spettacolari che hanno caratterizzato la fotografia a colori, accettando il colore come un traguardo inevitabile nell'evoluzione della fotografia.”








 

HERNST HAAS

rnst Haas e’ un fotografo austriaco nato a Vienna nel 1921.

Come altri fotografi del suo tempo, ad esempio Henri Cartier Bresson, la sua aspirazione giovanile era quella di diventare un pittore.

Agli inizi degli anni 40 inizia a studiare medicina, ma a causa delle sue origini ebraiche e’ costretto ad abbandonare gli studi. Poco dopo, con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale interrompe ogni progetto. e si arruiola nell’esercito tedesco.

Solo dopo la fine della guerra inizia ad occuparsi di fotografia, fotografando il rientro dei prigionieri di guerra austriaci. Gia’ questi primi scatti attirarono su di lui l’attenzione di LIFE, che gli offri’ un contratto da fotografo interno. Haas preferi’ rigiutare l’incarico per preservare la propria indipendenza. Nel 1949, invitato da Robert Capa, entro’ a far parte dell’ agenzia Magnum. Qui ebbe modo di stringere rapporti con Henry Cartier Bresson e di intensificarli con Werner Bishof, al quale era legato da una profonda amicizia iniziata un paio d’anni prima lavorando per l’agenzia fotografica Black Star.



Nel 1951 si trasferisce negli Stati Uniti ed inizia subito a sperimentare l’utilizzo del colore grazie alle pellicole Kodachrome. In quegli anni l’utilizzo del colore in fotgrafia era appena relegato al campo pubblicitario: le immagini non venivano utilizzate sulle riviste e non gli veniva attribuito praticamente nessun valore artistico. Ernst Haas divenne subito il piu’ grande fotografo a colori degli anni ‘50. Nel 1953 LIFE pubblica un suo reportage di 24 pagine su New York. Era la prima volta che LIFE pubblicava un reportage a colori di questa portata. Nel 1962, una sua retrospettiva fu la prima esposizione di fotografie a colori nell storia del New York’s Museum of Modern Art.

Durante la sua carriera, Haas ha viaggiato in lungo e in largo per il mondo, realizzando reportage per LIFE, Vogue e tante altre riviste di caratura internazionale. Durante la sua vita pubblico’ quattro libri: The Creation (1971), In America (1975), In Germany (1976), and Himalayan Pilgrimage (1978).

Nel 1986, anno della sua morte, riceve il Premio Hasselband.




Ernst Haas e’ senza dubbio  uno dei piu’ influenti e celebrati fotografi della storia della fotografia. I capisaldi della sua ricerca fotografica, per i quali e' stato senza dubbio un pionere ed un rivoluzionario, sono essenzialmente due: il colore ed il movimento.

La sperimentazione fotografica di di Ernst Haas era  volta alla ricerca di uno stile che gli consentisse di sfruttare al meglio l’uso combinato di colore e movimento. Ne risulta uno stile inconfondibile, fatto di immagini volutamente mosse e di toni cromatici forti, nel quale si rispecchiano anche le giovanili aspirazioni pittoriche. Questo stile si mostra chiaramente nella famosa serie di fotografie dedicata alla corrida, nelle quali colore e movimento si combinano dando vita ad un nuovo linguaggio visivo.



 

STEVE MC CURRY



Membro della Magnum, Steve McCurry si e’ laureato nel 1974 in Cinematografia e Teatro presso l’Universita’ della Pennsilvanya.

Inizia a lavorare come freelance alla fine degli anni ‘70, realizzando reportage dall’ India e dall’ Afghanistan,  i paesi con cui maggiormente si identifica il suo lavoro.

La svolta nella sua carriera avviene nel 1979, quando entra nelle zone Afaghane controllate dai mujahiddin, appena prima dell’invasione russa. Quando tornò indietro, per attraversare il confine  portò con sé rotoli di pellicola cuciti tra i vestiti.

Le sue immagini a colori, che combinano al  meglio l’arte del reportage, dellla fotografia di viaggio e dell’indagine sociale, sono state pubblicate in numerose pubblicazioni in tutto il mondo, ma il nome di Steve McCurry rimane in particolarmente legato al National Geographic, di cui ha realizzato la copertina piu’ famosa di tutti i tempi.










C’e’ una sorta di paradosso nella fotografia di Steve McCurry. Sul piano tecnico, le sue foto risultano praticamente  perfette, serene, caratterizzate dalla forza e dalla vivacita’ del colore, ma  raccontano di storie inquietanti di poverta’ e sradicamento, di fame e disperazione. Potrebbe sembrare mancanza di empatia con i soggetti fotografati, ma in realta’ e’ il contrario. Le sue immagini sono frutto di una scrupolosa ricerca, realizzata attraverso lunghissimi viaggi ed estenuanti attese del momento perfetto. Cosi’ racconta come e’ riuscito scattare la famosa foto in cui ritrae dei pescatori dello Sri Lanka in equilibrio su canne di bambu’ :  “ Prima ho studiato i luoghi e le tecniche di pesca, poi ho trovato il posto giusto ed un punto di vista convincente e prima di scattare ci sono tornato tre volte : nel tardo pomeriggio, al mattino presto e dopo il tramonto. Alla fine ho scelto la luce delle 7 del mattino con il cielo completamente coperto”.

L’approccio di McCurry e’ prevalentemente antropologico, nelle sue immagini sono presenti cultura, religione e tradizioni. McCurry non ricerca lo scatto folgorante ed esplicito, le sue fotografie raccontano gli eventi collocandoli in un ampio contesto.

Come racconta al giornalista italiano Mario Calabresi, per fare il fotografo bisogna “immergersi” nella realta’ che si vuole rappresentare. Cosi’ racconta la sua esperienza durante i monsoni in India, durante i quali realizzo’ un reportage che gli avrebbe dato fama mondiale: “ Quell’anno ho capito che, per farcela, dovevo entrare nell’acqua lurida, coperta di melma, piena di rifiuti e animali morti : per compiere il mio progetto, dovevo accettare tutti i rischi, compreso quello di ammalarmi e morire”

Come emerge chiaramente dalle sue foto, Steve McCurry ama rivolgere pa propria attenzione all’essere umano: "La maggior parte delle mie foto è radicata nella gente. Cerco il momento in cui si affaccia l'anima più genuina, in cui l'esperienza s'imprime sul volto di una persona. Cerco di trasmettere ciò che può essere una persona colta in un contesto più ampio che potremmo chiamare la condizione umana. Voglio trasmettere il senso viscerale della bellezza e della meraviglia che ho trovato di fronte a me, durante i miei viaggi, quando la sorpresa dell'essere estraneo si mescola alla gioia della familiarità".



L’approccio di McCurry e’ prevalentemente antropologico, nelle sue immagini sono presenti cultura, religione e tradizioni. McCurry non ricerca lo scatto folgorante ed esplicito, le sue fotografie raccontano gli eventi collocandoli in un ampio contesto.

Come racconta al giornalista italiano Mario Calabresi, per fare il fotografo bisogna “immergersi” nella realta’ che si vuole rappresentare. Cosi’ racconta la sua esperienza durante i monsoni in India, durante i quali realizzo’ un reportage che gli avrebbe dato fama mondiale: “ Quell’anno ho capito che, per farcela, dovevo entrare nell’acqua lurida, coperta di melma, piena di rifiuti e animali morti : per compiere il mio progetto, dovevo accettare tutti i rischi, compreso quello di ammalarmi e morire”

Come emerge chiaramente dalle sue foto, Steve McCurry ama rivolgere pa propria attenzione all’essere umano: "La maggior parte delle mie foto è radicata nella gente. Cerco il momento in cui si affaccia l'anima più genuina, in cui l'esperienza s'imprime sul volto di una persona. Cerco di trasmettere ciò che può essere una persona colta in un contesto più ampio che potremmo chiamare la condizione umana. Voglio trasmettere il senso viscerale della bellezza e della meraviglia che ho trovato di fronte a me, durante i miei viaggi, quando la sorpresa dell'essere estraneo si mescola alla gioia della familiarità".



Il fotografo americano e’ stato uno dei primi a raccontare l’India e l’Asia utilizzando la fotografia a colori.  Prima di lui il subcontinente era stato raccontato praticamente solo in bianco e nero. L’ India di Mccurry invece costituita da un’ infinita varieta’ di visioni luminose e contrastanti, odori e sapori a cui solo il colore puo’ rendere giustizia.

Da qui derivano anche alcune critiche, soprattutto da coloro che ritengono che il bianco e nero abbia indiscutibilmente  una  ‘’profondita’’’ e ‘’sostanza’’ che la fotografia a colori non potra’ mai raggiungere. Ma una delle caratteristiche dei grandi fotografi, e’ quella di sapere andare oltre i limiti di un medium e, facendolo,  creare un nuovo standard.

Steve McCurry, indubbiamente, ha questa caratteristica e la sua fotografia e’ universalmente apprezzata per la sua bellezza ed umanita’.



 

HELMUT NEWTON



Helmut Newton e’ una delle figure piu’ controverse della fotografia mondiale. Viene introdotto alla fotografia da Elsie Neulander Simon, fotografa berlinese specializzata in moda, ritratti e nudi.

Costretto ad emigrare in Australia dal regime nazista, vivra’ poi anche a Parigi, Montecarlo e Losa Angeles. Riscosse i primi successi scattando per la versione inglese di Vogue negli anni ‘50, per poi divenire uno dei piu’ importanti fotografi di moda di tutti i tempi.  Raggiunse l’apice della sua carriera a cavallo fra gli anni ‘60 e ‘70, quando divenne una vera e propria celebrita’.

A parte le fotografie di moda, sono famosi i suoi ritratti ai grandi personaggi del ‘900.

Ha pubblicato decine di libri ed i suoi lavori sono stati pubblicati in tutto il mondo.




Su Helmut Newton  girano le opinioni piu’ disparate. Per qualcuno e’ un genio che elevato la fotografia di moda ad arte; per altri e’ un misogino le cui fotografie hanno oltrepassato i limiti dell’accettabilita’.

Lui stesso era consapevole dei giudizi controversi che attirava, e su quell’immagine da cattivo ragazzo ci costrui’ buona parte del suo personaggio.  Una sua frase, forse la  piu’ famosa, spiega ben l’inclinazione di Newton:  «Bisogna essere sempre all’altezza della propria cattiva reputazione».

La fama di Newton esplose nel mondo della fotografia alla fine degli anni ‘60, quando inizo’ ad introdurre nella fotografia di moda elementi di sado-masochismo, voyeurismo e omessessualita’. Le donne sono riprese in pose provocanti: si aggirano cariche di tensione erotica attraverso la camera di un albergo; si adagiano su un divano colme di soddisfazione post coitale.

La sua carriera e’ stata accompagnata dal gusto per la provocazione.  Nel 1974, usci’ il suo primo libro White Women. che ottenne ottenne l’effetto desiderato: una bomba . A partire dal titolo, accusato di razzismo. «Ma quale razzismo» replicò, «è un bellissimo titolo, tantopiù che non c’è neanche una donna nera in tutto il volume...»

Le sue  modelle sono alte, forti e muscolose, in pratica il prototipo di modella anni ‘80. Gli scenari che rappresenta riflettono le sue ossessioni repressoe e,  comprensibilmente , non pochi ritengono il suo lavoro degradante per la dignita’ della donna.



Al giorno d’oggi la fotografia di Newton non sembra piu’ cosi’ trasgressiva, in parte perche’ sono cambiati i tempi, in parte anche grazie proprio al suo contributo. Quello che una volta era considerato politicamente scorretto adesso e’ “porno-chic”. E’ stato copiato ed emulato cosi’ tante volte che i fotografi contemporanei di successo cercano di evitarlo in tutti i modi.

Helmut Newton aveva capito che piu’ le sue opere erano ambigue, piu’ riuscivano a disorientare l’osservatore, piu’ sarebbero rimaste nella sua memoria. Ha sempre sfidato le convenzioni e lo sguardo dell’osservatore,  talvolta prendendolo in giro, ma sempre con stile ed eleganza.

Nonostante sia stata spesso oscurata dai contenuti, la sua tecnica fotografica e’ sopraffina: luci e composizione sono  praticamente impeccabili.

Insomma, una cosa e’ certa : le foto di Newton sono impossibili da ignorare.



 

SEBASTIAO SALGADO



Sebastiao Salgado nasce in Brasile nel 1944. Si forma come economista prima in Brasile poi in Francia. Agli inizi degli anni ‘70, mentre lavorava per l’ Organizzazione Mondiale del Caffe’, inizia ad interessarsi alla fotografia. Da passione amatoriale, in breve tempo la fotografia diventa una vocazione e un progetto di vita. Salgado trova subito una nicchia di cui diventa protagonista, documentando come i cambiamenti ambientali, economici e politici condizionano la vita dell’essere umano.

Ha lavorato su molti dei principali conflitti degli ultimi 25 anni, ma la sua opera piu’ famosa rimane probabilemente “ La mano dell’uomo ”, un colossale progetto sul’uomo e sul lavoro, realizzato in 6 anni attraverso 26 paesi, una delle piu’ importanti opere fotografiche del dopoguerra.

A meta’ degli anni ‘90, profondamente toccato dalla crudezza delle scene viste durante il genocidio in Ruanda, Salgado decide di dedicarsi ad un progetto ambientale presso l’ hacienda di famiglia in Brasile. Contemporaneamente , sposta la sua attenzione di fotografo sulle tematiche ambientali, ed inizia a lavorare al progetto “Genesis” che lo portera’ ad abbandonare le sue caratteristiche di ritrattista, ed a realizzare un colossale omaggio al Pianeta, rappresentando animali e paesaggi non ancora contaminati dal progresso umano. Questa trasfortmazione nella sua carriera, e’ raccontata splendidamente nel film-documentario “ Il sale della Terra”, di Wim Wenders.



Salgado e l'Africa. Durante alcuni viaggi per conto dell' Organizzazione Mondiale del Caffe', inzia a conoscere l'Africa ed a capire che per trovare delle soluzioni ai problemi del Terzo mondo, bisogna prima testimoniare. Lo strumento che utilizzerà per adempiere a questa missione sarà la macchina fotografica. Così, nel 1973, lascia il lavoro ed inizia un viaggio di tre anni che lo porterà a girare per tutta l' Africa con una nuova professione: fotografo. 

Salgado ed il lavoro. Con la fine del ‘900, l i lavori tradizionali e manuali iniziano rapidamente a sparire, soppiantati progressivamente dall’ avvento delle nuove tecnologie. La mano dell’uomo” e’ un grande omaggio alla condizione umana ed al lavoro, che  Salgado realizza raccontando per immagini  questo passaggio epocale. Dalle miniere d’oro del Brasile ai pozzi di petrolio del Golfo Persico, dalla Manica alle miniere di zolfo Indonesiane, Salgado e’ sempre li’, pronto a immortalare in 35 mm il dramma e la disperazione ma sopratutto, la dignita’ dei lavoratori. Salgado era considerato un ottimo fotogiornalista fino alla pubblicazione de “ La mano dell’uomo”, ma quest’opera colossale lo ha collocato in una dimensione ancora piu’ ampia. Le fotografie di Salgado esprimono tutta la loro potenza sia sulla carta stampata che sulle pareti di una galleria d’arte, caratteristica che contraddistingue i grandi fotografi.




Salgado realizza raccontando per immagini  questo passaggio epocale. Dalle miniere d’oro del Brasile ai pozzi di petrolio del Golfo Persico, dalla Manica alle miniere di zolfo Indonesiane, Salgado e’ sempre li’, pronto a immortalare in 35 mm il dramma e la disperazione ma sopratutto, la dignita’ dei lavoratori. Salgado era considerato un ottimo fotogiornalista fino alla pubblicazione de “ La mano dell’uomo”, ma quest’opera colossale lo ha collocato in una dimensione ancora piu’ ampia. Le fotografie di Salgado esprimono tutta la loro potenza sia sulla carta stampata che sulle pareti di una galleria d’arte, caratteristica che contraddistingue i grandi fotografi.



Salgado e la natura. All'inizo degli anni  '90 Salgado inizia un viaggio lungo sette anni per dare vita al progetto "In cammino", durante il quale visiterà quaranta paesi per testimoniare gli esodi che affliggono il pianeta. Nonostante i 20 anni di carriera già alle spalle, quest'esperienza si rivelerà traumatizzante per Salgado : " Quello che ho visto durante il genocidio ruandese mi ha fatto perdere la fede nell'uomo e nel mondo. Alla fine di questo percorso stavo male, la mia salute era a pezzi". Decide ti tornare in Brasile e dedicarsi ad uno dei piu' grandi progetti ambientali mai realizzati. Nella terra di proprieta' della famiglia da inizo ad un opera di riforestazione che lo portera' a piantare piu' di due milioni di alberi ed a ridreare un ecosistema ormai scomparso. Abbandona momentaneamente la fotografia fino a quando, ispirato anche da questa esperienza, si lancia nel progetto " Genesi". Inizia a viaggiare in lungo e in largo per il  pianeta, alla ricerca di quei luoghi non ancora intaccati dall'uomo,  dove e' ancora possibile cattuare immagini che evocano tutta la bellezza e la potenza della natura.



 

Fonte : http://www.grandi-fotografi.com




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